Arcidiocesi di Campobasso-Bojano
QUARESIMA 2009

MESSAGGIO PASTORALE
“DE GEMITU CRUCIS”

LE SETTE PAROLE DI GESU’ SULLA CROCE

MONS. GIANCARLO BREGANTINI

Carissimi fratelli e sorelle,
eccomi in tutto raccoglimento a bussare al vostro cuore,  proprio all’inizio di questo periodo delicato e intenso, qual è la Quaresima.
Ogni anno questo è tempo carico sempre nuovo e sempre ricco di speranze, riflessioni, intuizioni.
Come la primavera! Che dentro la sua luminosità ci spoglia dell’inverno e ci profuma le giornate di risveglio. La Quaresima pone davanti a tutti noi uno specchio, severo ma limpido. E ci chiede di guardarlo con schiettezza e verità, perché in esso possiamo scorgere la nostra vera immagine.
Non quella delle foto ufficiali, né quella delle comode sfilate; e nemmeno quella delle parate, dove tutto deve funzionare a perfezione. Ma quella autentica, dove la bellezza insostituibile dei nostri volti, con le rughe, le fatiche, le preoccupazioni e le gioie ci dice che tipo di uomini e donne siamo veramente. E’ l’immagine di un volto che sa leggere le cose che avvengono con la consapevolezza che stiamo vivendo periodi difficili, eppure anche fecondati di speranze nuove, di orizzonti sempre più ampi.
Che ci occorre? Non sarò io a dirvelo. Ma desidero solo indicarvelo, magari rispolverarlo o ricercarlo insieme. A me, come vescovo, tocca offrirvi la luminosità di questo confronto e di questa ricerca con un volto, che vi parlerà da solo. Che ci darà una speranza rinnovata, una chiarezza maggiore, una spinta a non fermarci dinanzi all’apparenza e alle pietre d’inciampo che incontriamo ed esperimentiamo lungo il nostro cammino .
Questa è la Quaresima: il tempo in cui non senti il bisogno di una vita più agiata e ultimata, ma quello di un passo, di un volo, di un senso, di uno sguardo ulteriore, che ci sospingano al di là delle sicurezze già raggiunte e dei limiti già provati. Un tempo cioè  dove poterci confrontare con la vita, quella che sta più in dentro, più raccolta, più inesplorata e silenziosa, leggendo e intravedendo nello specchio della Verità il volto stesso di Gesù crocifisso.

E’ mio desidero questa volta parlarvi delle SETTE PAROLE DI GESU’ SULLA CROCE.

Un volto, una croce: Sette parole.
Un dramma, un martirio: Sette sospiri d’amore.
Un Dio, un Uomo: Sette lacrime di perdono.
Una storia che è la nostra storia. Gesù, il Nostro Salvatore che, crocifisso e morente, ci apre lo spiraglio verso l’Eterna beatitudine.
Un percorso fin dal principio tracciato unicamente dall’Amore, perché altro non è la venuta, la crocifissione, la morte di Gesù se non la Rivelazione ed il Compimento dell’Amore di Dio per l’Umanità. E’ insieme  tutto è annuncio di fede, che va da quell’abbandono drammatico che Gesù sente da parte di Dio, quando grida il suo dolore acutissimo oltre il cielo, fino all’affidamento dolcissimo nelle mani di questo Dio, che da  Padre lo accoglie con infinita tenerezza.
Tra la prima e l’ultima Parola c’è tutto il nostro cammino di vita e di fede. Un abisso di dolore ed un vertice d’amore!
“Ho fatto loro conoscere il Tuo nome, perché l’Amore con cui hai amato Me sia in essi ed Io in loro” (Gv.17,26)

Perché questa scelta?  Per tre ragioni.
a) le sette parole di Gesù mi hanno sempre affascinato. Le ho meditate mille volte, con profonda commozione personale. Le ho spiegate tante altre volte, mai senza frutto, specie nei confronti dei morenti e dei tribolati dalla vita. In particolare, le ho apprese in profondità in due mie esperienze da prete: come cappellano dell’ospedale traumatologico di Bari e nelle carceri di Crotone, in Calabria, dove sono stato giovanissimo cappellano per alcuni anni. Anni di scontro con l’assurdità del dolore, tra gente che gridava, che chiedeva anch’essa, sia nel dolore fisico che in quello morale, la ragione, il perchè di tanto soffrire. Tante volte avevo cercato spiegazioni razionali, offrendo alla gente che soffriva dotte riflessioni teologiche e spirituali. Ma non avevo notato luce nel loro volto, perché sfioravo il loro cuore, senza mai però arrivare a toccarlo veramente. Anzi, in certi casi, rapidissima e giustificata era una reazione di rabbia. Perché lo scarto tra la sofferenza e la spiegazioni li rendeva ancora più nervosi. Parole facili, ma sterili. Sterili, proprio perché facili!

b) Allora scoprii che solo quelle parole e quel volto, parole e volto di Gesù, grido di dolore e icona di sputi e di sangue, poteva essere l’unico SPECCHIO che facesse rilucere un barlume di speranza e di coraggio. Anche dentro il buio di una cella di carcere. Anche dentro una casa dove stava morendo, lucidissima, una giovane e forte professoressa di matematica. Quelle Sette parole, riportate dai quattro evangelisti, sapevano parlare, stringere il cuore di conforto. Parole che parlavano perché vissute proprio dal Verbo Incarnato! Parole che ci raggiungono anche oggi, in ogni realtà di dolore e di rabbia. Solo esse portano pace, solo esse brillano di speranza. Ecco: non le nostre parole, ma le Parole di Cristo!
c) Ben scandite, pacate, meditate. Anche musicate, come saggiamente facevano i cori barocchi, di altissima poesia, nella tenebra del Venerdì Santo, quando l’umanità si interroga, in modo più deciso, sul mistero di quell’Amore Persona fattosi dolore: reietto, disprezzato, schiacciato…eppure capace di pronunciare ancora parole di perdono e di abbandono! E come non vedervi, in controluce, il calvario di ogni malato terminale, che attraversa in modo altrettanto drammatico le stesse tappe di Gesù sulla Croce?! Il dramma di Eluana e di ogni altra ragazza come lei, segnata tragicamente dalla vita, coinvolgendo in essa anche la sua famiglia, perché non resti nella tragedia senza risposta, ma da quelle parole possa ricavare una sete d’amore, che si fa perdono ed affidamento per loro e, per noi, affettuosa vicinanza in maturo rispetto.

d) E non solo. Ma quest’anno, l’anno dedicato alla figura di san Paolo, sperimento dentro di me che quelle stesse parole di Gesù risuonano sulla bocca dell’apostolo convertito. Perché il dramma del dolore anche in Paolo ha la stessa valenza. Lui che ha scritto proprio di Abramo, che “contra spem, in spem credidit”: Sperare contro ogni speranza! Cioè Abramo, come Gesù, come Paolo…come ogni vero credente ha saputo guardare oltre. Ha imparato nella sofferenza ad allungare le sue prospettive. Non si è fermato dentro le cose che contrastano la speranza in modo evidente, non ha vacillato, non ha esitato, anzi rimase forte nella fede e diede gloria a Dio. Ha creduto nella vita anche davanti a ragioni evidenti e umanamente schiaccianti di morte, perché il suo vivere era Cristo.

Ecco perché scelgo le Sette parole di Gesù sulla Croce.
Perché sono un vangelo vivente per tutti gli uomini. Non fatto di parole vuote né di cose scontate. In esso ardono robusti, perenni messaggi di vita, che proprio chi soffre più profondamente può apprezzare di più! E in esse riporre con umiltà la stessa sfiducia, la stessa rabbia, la stessa confusione, la stessa paura significa davvero trovare riposta di conforto senza fine!
Le ultime Sette parole di Gesù hanno illuminato il mio cuore. Ed io ora desidero condividerle con voi, le prego, le offro a voi tutti perché possiate attraverso la meditazione di esse essere penetrati dalla Luce di Dio, dove il principio e la fine si ritrovano magnificamente uniti, perché a regnare, a condurre, a volere che la vita sia più forte del dolore e della morte è soltanto il Suo Amore Misericordioso.
E con raggi meravigliosi che possano mostrarvi il corpo terreno, umano di Gesù, Figlio di Dio.
Sono certo che illumineranno anche il vostro volto, specie nei giorni di buio e di tristezza. Saranno stelle in cielo, nelle notti tenebrose, dell’attuale crisi, come ho indicato nel messaggio di Natale, seguendo il percorso di fede dei Magi.
Oggi quel percorso porta fin sul Calvario, in un altro momento di buio, che avvolse tutta la terra. Ed è proprio in quel buio, in quelle tenebre universali, che il grido di Gesù, le sue Sette parole risuonano con una valenza immensa ed invincibile.

“Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno crocifisso!”
Così san Giovanni nel suo Vangelo chiude la drammatica scena della crocifissione, prima di procedere al racconto della sepoltura.
Ed anche noi, oggi, in questa quaresima, desideriamo guardare a Colui che abbiamo trafitto, ascoltando le sue Parole, fatte sospiri d’amore. Penetranti e vivissime, come frecce acute e come spada a due tagli.

Dividiamo ora il messaggio in tre parti:

a) la fecondità della Quaresima per la nostra vita, oggi
b) una lettura esegetica delle sette Parole di Gesù sulla Croce
c) un commento attualizzante di ciascuna delle sette Parole

a) LA FECONDITA’ DELLA QUARESIMA PER LA NOSTRA VITA

Per cogliere la valenza e la fecondità che viene nascosta nella Quaresima, eccovi un simpatico racconto, una piccola storia sul diavolo, che ho letto in uno dei miei tanti libretti di favole che utilizzo prima di addormentarmi.
“Un giorno Satana decise di incrementare il valore delle sue cattive azioni. Radunò i capi dipartimento e lo stato maggiore della “infernale divisione di propaganda e pubblicità”, per escogitare nuove campagne di tentazioni e tranelli per gli uomini. Soprattutto voleva ad ogni costo, con vera perfidia, distruggere nel cuore degli uomini e delle donne il senso della vita!
“Dì  loro che Dio non esiste!”, propose un diavolo.
Satana sbuffò: “Vorrei qualcosa di meno ovvio!”.
“Di loro che nessuna delle loro azioni ha delle conseguenze!”, consigliò un altro.
Satana scosse il capo: “Lo pensano già da soli!”.
Un terzo suggerì: “Dì loro che si sono tanto allontanati dalla retta via, che non riusciranno mai più a tornare indietro, perché le persone non sono più  capaci di cambiare”.
Satana sbottò: “Già provato…!”.
Allora il più vecchio e scaltro dei diavoli chiese la parola: “Fa semplicemente credere a loro che ci sia molto, molto tempo avanti a loro…!”.
Satana sorrise diabolicamente soddisfatto: “Questa sì che è una buona idea!”.

Il senso della storia è molto chiaro.
Fin che abbiamo la certezza di avere davanti sempre molto tempo a nostra libera disposizione, tutto ci sembra nostro, tutto sicuro e garantito. Ti senti padrone del tuo tempo e della tua vita. E ne fai quello che vuoi. Non hai da rendere conto a nessuno, se non in tempi e scadenze molto lontane.
Perciò ti comporti da padrone, non solo sulle cose, ma anche sulle persone.
Prova infatti a pensare, per un attimo, se solo sapessi che domani è l’ultima volta che vedi tua madre…o tua figlia…o i tuoi amici…o quel volto…Allora tutto cambierebbe. Li accarezzeresti con una tenerezza immensa. Ne ascolteresti la voce con una attenzione unica. I colori sarebbero molto ma molto più vivi. Non ti importerebbe di nulla, pur di ascoltarli con venerazione.
Tutto cambia se cambia la prospettiva del tempo.
Non per nulla, san Paolo, in una celebre pagina ai Corinzi, scrive che con il Cristo Gesù, “il tempo si è fatto breve. E’ poco il tempo che ci rimane. Perciò, d’ora in poi quelli che sono sposati, vivano come se non lo fossero, quelli che piangono come se non fossero tristi, quelli che sono allegri come se non fossero nella gioia, quelli che comprano come se non possedessero nulla e quelli che usano i beni di questo mondo come se non se ne servissero. Perché passa la scena di questo mondo e questo mondo, così com’è, non durerà a lungo”! (7,29-31).
Non si tratta di pessimismo. Ma di cogliere che tutto è relativo. Che il centro di tutto è la figura di Gesù Cristo. Con lui, le prospettive sono cambiate. Non è più come prima. Se credi, il suo volto ti cambia la vita. Ed anche il senso del tempo. E con ciò, il gusto delle cose.
Gesù non toglie nulla. Anzi, dona ad ogni cosa un gusto, un significato, un valore ancora maggiore. Ti fa gustare in pienezza l’amore: la tua casa si fa più bella; la tua sposa o il tuo sposo ti amano di più in Lui; i tuoi figli li senti più vicini; il tempo si fa più prezioso, i colori più vivi. Fugge la noia, e scompare la tristezza.
Ed ecco che anche chi bussa alla tua porta, specie in questo periodo di quaresima, si fa fratello e non fardello. L’immigrato non  sarà da denunciare, da cacciare, da averne paura. Perché sul suo volto, vedrai rilucere il volto stesso di Gesù. E allora, non gli dirai più, con tono nervoso: “Su, passa lunedì, vieni un’altra volta…”!, perché il domani non è più in tuo possesso esclusivo. E non rimanderai l’impegno per la conversione tua, come rimandi la dieta al solito immancabile lunedì, mai arrivato…
Quando è all’amore che dai la precedenza, tutto passa in second’ordine, perché senti che ti è necessario di più amare per sentirti veramente felice e far felice chi ti sta accanto.
E’ allora che la Quaresima diviene tempo propizio e di dono. Per amare, per donare, per accogliere, per riconciliarti con coloro con cui non hai ancora fatto pace…perché rimandi il perdono sine die, ad un domani che non verrà mai…

Ed in Quaresima ti accorgi di aver ancor più bisogno di una Parola che non passa, di una Parola che vale più del pane, perché l’uomo non vive solo di pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4,4).
E proprio dalla bocca del Signore, in un particolarissimo momento di dolore, sono uscite le sette parole sulla Croce.
Sette parole che cambiano la tua Quaresima, se le senti dette anche per te, proprio per te, perché il tuo grido di dolore, di fronte a tante ingiustizie, specie oggi di fronte a questa crisi così acuta e devastante, si possa sciogliere in gioia. Se siamo morti con Lui, vivremo con Lui”. (2Tm. 2,11)

b) UNA RAPIDA LETTURA ESEGETICA DELLE SETTE PAROLE

E’ bello non fermarsi solo alle sette singole espressioni, ma cogliere che quelle sette parole sono dentro un preciso contesto, che sono i quattro racconti degli evangelisti per descrivere con abbondanza di particolari la terribile Passione di Gesù, la sua morte e la sua risurrezione.
I racconti della passione e della risurrezione di Gesù negli evangelisti rappresentano il punto culminante del Vangelo. Lo dimostra la notevole estensione dei brani, rispetto all’insieme degli altri racconti. Tutto verte verso questo punto di compimento. E’ il momento decisivo. Lo scontro e l’incontro finale. L’Ora della sua vita. Il nucleo germinale del vangelo, l’oggetto essenziale della prima predicazione apostolica Kerigma!.

Eppure, ogni evangelista, pur dentro questa unitarietà condivisa, offre delle colorazioni uniche ed esclusive. Presenta cioè delle caratteristiche specifiche, che danno al suo racconto una tonalità particolarissima. Che traspare poi nelle sette parola di Gesù, riportate dai singoli evangelisti.

Per MATTEO, la Passione è soprattutto compimento delle scritture. Quel compiersi che si fa pienezza, realizzazione, manifestazione di una fedeltà vivace e fattiva della volontà d’amore del Padre in Gesù suo Figlio fedele.
E’ meno crudo di Marco, più teologico, più impostato sulla croce-gloria.
Impostazione che troverà in Giovanni la sua pienezza.
Matteo è così attento alle scritture, ai titoli messianici di pienezza, allo sguardo di speranza che proietta lontano, per dare ad ogni gesto di Gesù una valenza di salvezza aggiuntiva.
Tutto in Lui è amore che salva, è gesto che redime, è pienezza che rassicura.
E la sua morte è per tutti i popoli, nessuno escluso. E se i giudei chiudono il cuore, la salvezza passa oltre, non si perde e sa attendere tempi di ricupero anche per loro.

Anche per MARCO la Passione rappresenta il vertice ed il culmine di tutto il suo breve vangelo. Anzi, le proporzioni di spazio sono maggiori rispetto agli altri evangelisti. Per sottolinearne la gravità ed importanza.
Pare che il racconto di Marco sia il più antico, il più vicino alla tradizione primitiva, ben aderente ai fatti, con pochi commenti, con forte efficacia narrativa.
Per questo, leggere Marco appassiona sempre. Leggerlo tutto in un fiato, poi, specie in certi giorni di dolore, lascia nel cuore una profonda compassione e vicinanza verso quel Gesù che, in Marco, muore solo, tremendamente solo. Non c’è nessuno sotto la croce di Gesù morente. Non c’è la Madonna, non c’è Giovanni. Solo alcune donne lo osservano. Ma da lontano…,per indicare l’immensa sofferenza di quel Gesù che muore come il sevo sofferente e il Giusto perseguitato.
Per questo, attrae e colpisce sempre più il suo immenso silenzio, misterioso, rotto solo da quel grido di dolore che commenteremo. Un grido straziante, che sale diritto al cielo, a quel Dio che sembra lo abbia abbandonato!
Eppure, proprio in questo misterioso silenzio, l’amore del Padre appare ancor più. Perché tutto rimanda a quel momento in cui il Padre, pur nella forza della fede che non vede ma solo intravede, tirerà fuori suo Figlio dal sepolcro!
Come un giorno tirerà fuori anche noi!

Per LUCA, invece, il racconto della Passione è il modo con cui l’evangelista mette in risalto più degli altri l’innocenza, la mansuetudine di Gesù. prototipo del Giusto perseguitato iniquamente.
La passione in Luca si fa così lo scontro decisivo tra Gesù e satana.
Eppure in questo scontro, così decisivo, come per noi oggi, Gesù non resta solo (come lo descrive Marco!), ma è solidarmente proteso, con accenti di immensa misericordia, verso coloro che soffrono con lui e per lui. Ed anche la folla non manifesta ostilità conto di lui. Resta sì lontana, ma in riverente attenzione e, dopo la morte, ritorna alle case battendosi il petto.
Quella dolcezza d’amore pare dirci che anche per noi, oggi, è bello condividerne la passione ed il dolore. Che è bello porsi ai suoi piedi, ascoltarne la voce, sentirle le sue parole di misericordia verso il ladrone pentito e verso tutti noi, che abbiamo ucciso il Giusto, senza sapere quello che facciamo…
Non per nulla, sarà proprio Stefano a seguire, ben presto, quelle orme di perdono e di pacificazione, che lasceranno dentro il cuore duro di Saulo la prima goccia di una nuova visione di vita, il primo segno di conversione.
In ogni persecuzione, quel volto e quella voce risuoneranno lungo secoli, perché ogni martire sarà come Gesù!

E per GIOVANNI?
Tutto il cammino precedentemente espresso dagli altri tre evangelisti (i Sinottici!), viene da Giovanni ripreso e caratterizzato ancor meglio, con una precisione teologica e cronologica impressionante. Come appunto di chi è stato presente, ha tutto memorizzato e tutto trasfigurato per amore e nell’amore, verso l’Amato del suo cuore, trafitto per amore.
L’espressione che tutto riassume è la fatidica Ora, in cui Gesù può finalmente manifestare il suo amore immenso per gli uomini: avendo amato i suoi, li amò sino alla fine!
Per questo, Gesù de-pone la sua vita, liberamente, come ha deposto le sue vesti per la lavanda dei piedi. Sempre per amore e con amore supremo. Definitivo, di cui l’ora,finalmente scoccata, segna la perennità di grazia.
Ma Giovanni caratterizza tutto questo dono d’amore dentro una particolare forma di consapevolezza. Gesù sa bene tutto quanto sta per succedergli. E lo accoglie, va incontro, precede quasi. Una consapevolezza che rende ancor più grande quell’amore oblativo. Proprio perché se l’amore non è libero, non è vero amore.
E la volontarietà rende il suo morire carico di un altro segno: LA SUA REGALITÀ. Cristo Gesù, morendo per amore, si fa vero Re dell’umanità e della storia. Gli uomini sì lo uccidono e lo eliminano da questo mondo. Ma alla fine, non sono loro a vincere. Non è né Pilato né Erode a dominare la scena. Ma è quel Gesù umiliato che vince e sconfigge ogni potere terreno.
Per questo, Giovanni chiude il suo bellissimo racconto, commovente e mai letto abbastanza, con una celebre frase, già sopra riportata e che diviene anche per noi la fonte di questo nostro scritto pastorale: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto!”.

Prima parola: “PADRE, PERDONA LORO, PERCHE’ NON SANNO QUELLO CHE FANNO!

E’ Luca, l’evangelista della misericordia ad introdurci direttamente nel cuore stesso di Gesù crocifisso, che eleva la sua grande supplica a Dio, tra dolori atroci: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”!.
Si sentono ancora i chiodi che si infiggono nelle carni vive del nostro Redentore. Si odono le urla dei soldati e l’ironia cattiva e malevola della gente, che scuote il campo. Tutto è cattivo, tutto delinquenziale, tutto sa di condanna, di vergogna.
Ed è proprio allora, proprio in questo contesto di dolore e di tragedia, che Gesù alza gli occhi al cielo ed invoca per noi dal Padre non la condanna, pur meritata, ma la misericordia.
Chiede per tutti noi il perdono. Invoca uno sguardo di comprensione e non di giudizio.
C’è tutto il nostro Gesù in questa parola. Perché è il suo stile, la sua vita. Lui che ha sempre scrutato con amore il cuore della sua gente, che ha cercato la pecorella smarrita tra i rovi, che ha atteso con ansia il figliol prodigo sulla porta di casa…

Per questo, è bello cominciare così il cammino delle Sette parole di Gesù sulla croce. Da questo cuore che vede oltre, che non si ferma alla cattiveria, che non giudica ma perdona. Inizia così un vero itinerario, un autentico percorso d’amore. Parola dopo parola sarà sempre più avvincente e luminoso. Ma la prima parola di questo percorso è una parola di perdono, quasi a dirci che non c’è perfezione spirituale senza il perdono.

Perché è il perdono che apre la porta della santità. Ma purtroppo, è anche il non perdono che la chiude. Per sempre.
Perdono o vendetta: dentro queste due realtà scorre, gioiosamente o tristemente, il cammino del mondo. Certo, davanti a quel Gesù che viene adagiato sulla croce, gettato da noi nel baratro del dolore, ci viene spontaneo chiederci tre cose: “ma perché gli uomini sono così cattivi? E perché Gesù è così buono, proprio mentre noi, uomini, siamo così cattivi? E come fare oggi a diventare anche noi buoni come è buono quel Gesù sulla croce?”

L’inesprimibile Amore che avvolge Gesù ci lascia sconcertati. Tanto più quanto non cogliamo quanto immensa sia la nostra cattiveria.
O meglio, è proprio questo suo immenso amore che ci permette di cogliere il nostro estremo rifiuto all’amore!
Ma allora, ci chiediamo come può quella mano, che percuote con chiodi pungentissimi il candido corpo di Gesù, non sentire il calore del suo cuore, la tenerezza del suo corpo che vibra d’amore e non riconoscere in Lui la VIA?

Come possono quegli occhi che guardano quel corpo squarciato dalla crudeltà, non udire la sua pace e non adorarlo nel suo splendore di VERITÀ?

Come può il cuore, che sente e percepisce nell’intimo l’affanno dei suoi dolori, non vedere che Gesù è la nostra VITA?

E mentre nella sua massima miseria l’uomo sta uccidendo ferocemente l’Amore e l’Amato, eccolo quel Gesù a chiedere al Padre di perdonare l’umanità intera! Scusa gli uomini davanti a Dio per la sofferenza universale che gli assegnano.
E’ per il suo infinito Amore che Gesù rivolge a Dio la sua richiesta di Misericordia per quanti lo stanno abbandonando, inchiodando, con bestemmie ed appellativi di tragico scherno!
E lui, Gesù dolcissimo, trafitto, grida d’amore fino a squarciare i cieli, per raggiungere il cuore della Bontà divina del Padre, per un perdono finale che apra finalmente il cuore di tutti gli uomini ad una nuova consapevolezza, frutto di un Amore definitivamente accolto e corrisposto.

Non ha paura di morire Gesù, perché è per amore che si offre a patire i dolori e le atrocità di tutti gli uomini. Mentre noi, uomini, non ci rendiamo conto che l’incarnazione del Figlio di Dio è avvenuta proprio per liberarci, finalmente, dalla paura della morte. Con la sua morte, sconfigge la morte. Con il suo perdono, vince l’odio. Con il suo scusarci, ci riallaccia al Padre. Amore e crudeltà si intrecciano, in modo inscindibile. Ieri come oggi.
Ieri sulla croce, Gesù vede benissimo il male degli uomini, coglie tutta la nostra cattiveria.
Sono i suoi uccisori, ma per loro giunge ad un vertice d’amore grandissimo, perché arriva a scusarli. Precisiamo subito: il male compiuto resta male ed è gravissimo sul piano oggettivo. Ma non lo è più sul piano soggettivo, perché chi lo compie (e qui sta la grandezza del cuore del Cristo, che legge nel nostro cuore!) purtroppo non si accorge del male che sta facendo. E’ quindi inconsapevole sul piano soggettivo. Tragica constatazione. Anche nelle nostre case e nelle nostre piazze. Accorgersi del male che stiamo facendo non è una cosa scontata, ovvia.
Ci vuole uno specchio per vedere se il nostro volto è in ordine e i nostri capelli sono a posto.
Così per leggere dentro il nostro cuore e dentro la nostra coscienza. Ci vuole uno specchio. E lo specchio è Gesù.
Questa è la forza della prima parola di Gesù sulla croce.
Lui è lo specchio. Lui ci rende consapevoli, con luminosità, del nostro male: Alla tua luce, vediamo la luce (salmo 35). Da soli, non ci saremmo accorti. Perché noi, di solito siamo subito pronti a scusare il male che compiamo. Raramente, accusiamo noi stessi. Sempre e solo gli altri! Ma è da qui, da questo atteggiamento così diffuso, che derivano tutti i mali, personali e sociali.

Per questo è grande, immensamente divino lo stile di Gesù. Perché lui non si ferma all’esterno delle cose. Non guarda i fatti visibili che tutti osservano e tutti giudicano. Ma penetra fino al cuore di ogni cosa e sa leggervi dentro, con quella forza che solo l’amore sa compiere. Perché solo l’amore penetra ed arriva a scusare, anche azioni gravissime, perché fatte senza una vera consapevolezza. Il male non viene giustificato, nel mentre viene perdonato!
Anzi, il perdono lo rende ancora più evidente nella sua bruttezza. Ma cambia la prospettiva. E Gesù ce la indica. Ci insegna cioè a soffrire e a non condannare. A non scaricare la vendetta su chi compie il male. Gesù infatti lo assume, in tutta la sua violenza.
Ed il male, realmente, si scarica su di lui, come ci dice Isaia. Su di lui, che diviene l’Agnello innocente condotto al macello: “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio ed umiliato!” (Isaia 53,4).
E allora il perdono realmente cos’è?
E’ quel “dono” che cambia la storia.

Il perdono che procede dall’amore stesso!

Perché il male non compie più la sua tragica sequenza di morte: occhio per occhio e dente per dente, ma si scarica su chi impara a perdonare. E si scompone nella sua violenza distruttiva. Anzi, quella carica negativa diviene forza d’amore imbattibile.
Come quando sopra un parafulmine, posto bene in alto, si scarica la violenza di un fulmine. Diviene innocuo. Anzi, energia positiva.
Chi perdona cambia un paese, una parrocchia. Crea la vera felicità. Perché perdonare, allarga il cuore, fa posto agli altri. Perdonare infatti guarisce. Ancor prima di sanare colui che viene perdonato, il perdono lava il cuore di  chi lo dona.

Una offesa non perdonata è come una sofferenza inacidita. Non riconciliata. Ed un dolore inacidito è a sua volta la fonte più tragica di un nuovo male.
Mentre solo con il perdono quella sofferenza si risana. E tutto diviene riconciliato, tutto si fa giardino. Certo, senza fretta. Senza volontarismi. Con la grazia dello Spirito, a lungo invocato.

Ma con il cuore aperto e la mente aperta.

I gradini del perdono.
Ecco un piccolo itinerario, composto di cinque gradini, che ho imparato nella mia vita di prete e di vescovo, a contatto delle carceri e dei drammi di paesi spaccati dalle faide. Con lezioni di vita che ho rinnovato anche nei conventi. Perché a perdonare, facciamo tutti la stessa fatica.
* Per prima cosa, dopo un’offesa, usa la testa. Contestualizza il fatto, scarica la violenza, inizia a capire, opera una rilettura serena di quanto è avvenuto. Non lasciarti trascinare dalla foza dei tuoi sentimenti. Fa come un bravo medico: tira fuori la spina che brucia e purifica la ferita dalle impurità. E’ questo che redime l’umanità schiava e peccatrice, che la purifica e le ridona bellezza e dignità.

* Poi usa il cuore ed inizia a pregare. Cioè non fermarti alla faccia di chi ti ha offeso. Se resti legato a quel volto di scherno, non ne esci più. Guarda invece il volto del Cristo sulla croce. Risenti queste sette parole di luce. Ripercorri certe parabole evangeliche. Cioè allarga, confrontati, scruta oltre. E prega molto.

* Poi confessati; trova un prete bravo che ti capisca, che ti comprenda, che faccia con te un percorso d’amore. Come ha fatto Gesù con il Padre. La confessione sacramentale sarà un sigillo di speranza che nessuna ulteriore cattiveria potrà spezzare. Perché lo Spirito santo rafforza d’amore quel sigillo di luce.

* Non basterà però nemmeno il singolo prete. Ti auguro di trovare una buona comunità, un gruppo, un movimento che ti possa accompagnare. Con tenerezza, con misericordia infinita. Pronti a capirti, a scusarti, a restituirti dolcezze nel cuore e luce negli occhi. Una comunità risana fino in fondo. Non lascia acerbo nessun frutto.

* Ed infine, percorsi questi quattro gradini del perdono, diverrai anche tu, con pace e gioia immensa, un ministro di consolazione.
Il prete resta ministro di riconciliazione sacramentale. e solo lui ha questo immenso potere di grazia. Ma tu, tu mamma che hai perdonato con il cuore sopra il vangelo, tu papà che hai offerto a Dio tuo figlio ucciso, tu amico che sai dimenticare chi ti ha offeso…ebbene, anche tu puoi divenire ministro di consolazione.

Una mamma che ha perdonato saprà parlare con voce unica e tono confortante a chi sta passando le sue stesse croci. Nessuno meglio di lei porterà al perdono!
Perché solo chi ha perdonato può insegnare a perdonare! Ce lo insegna anche don Andrea Santoro, prete romano ucciso in Turchia, agli inizi del febbraio 06, da un giovane impazzito, spinto però da una logica di fanatismo fondamentalistico.

Pochi giorni prima della sua eroica morte, da vero martire, scrive: “Quando avverto che per difendermi dalle spine tiro fuori le mie, mi rimetto sotto la croce, la guardo e mi ripropongo di seguire il “mio” fondatore, quello che non usa né spada né spine, ma ha subito l’una e le altre, per spezzare la spada e toglierci le spine del risentimento, della inimicizia, dell’ostilità. Gli chiedo di farmi la grazia del “suo” Spirito per tenere a bada il mio”!.

Ma recentessima e commovente è in questa dimensione la lettera del Papa Benedetto XVI sulla questione della scomunica rimessa ai quattro vescovi ordinati da Lefebre1.
Ecco perché questo itinerario con Gesù, nostro specchio di luce, sulle strade della perfezione, inizia da un immenso gesto d’amore: il perdono!
Aperta questa porta, la strada della perfezione si riaprirà ogni giorno sempre più.
E non ci sarà nulla e nessuno che ci farà paura.
Perché dentro il tuo cuore, quel cuore amabile di Gesù che scusa e salva, sarà già anticipo di Pasqua! Se si vive nell’amore si è vita e giovamento per sé e gli altri come incorporazione in Cristo.

Seconda parola: “OGGI SARAI CON ME IN PERADISO!

In Cristo natura divina e umana rimangono nell’unica divina Persona e perciò tutte le sue azioni umane sono anche azioni divine.
Il cammino di Gesù, dal soffrire per amore, perdonando, fino all’abbandono nelle mani del Padre,  è un prezioso cammino in salita, pieno di segni di redenzione, contrassegnato da una grande crescente speranza.
Anch’egli, come noi, prova quella sottile insidia, frutto di un grande dolore, che tende a richiuderci in noi stessi, che ci fa ripiegati nella nostra condizione di sofferenti. E quante volte avviene questo gioco negativo: un lutto improvviso,  una sventura, la crisi, la depressione, l’anoressia, lo smarrimento…Tutte prove, che ci portano a tagliare le relazioni. A restare incatenati nel nostro castello, fosse anche quello dorato di una condizione agiata.
Anche Gesù, credo, ha vissuto l’insidia delle lacrime solitarie, quando rispondi, in malo modo a chi si interessa di te e dici, gridando anche tu, che “tutto va bene…lasciami stare, ti prego…!”.
Ma Gesù l’ha superata questa tentazione. E le sette parole ne sono il cammino, l’itinerario di liberazione. Da relazioni chiuse a relazioni aperte, riconciliate, trasformate in speranza rinnovata e rinnovatrice. Queste sono le Sette parole. Per questo ci sono immensamente feconde! Il primo di questi incontri liberatori, dopo che il suo cuore si era aperto al perdono gratuito, è stato quello con chi soffriva accanto a lui, come lui. Anzi, forse, peggio di lui….!
Sono i due “ladroni”, quei due assassini che vengono uccisi con Gesù.
E sarà proprio rivolta a loro una delle parole più belle e più consolanti del Vangelo!
La scena è raccontata solo da Luca, l’evangelista della misericordia. Solo lui la narra, sigillo delle parabole del figliol prodigo accolto dalla misericordia del Padre, della dracma perduta e della pecorella smarrita.
Con Gesù, vengono condotti alla croce due malfattori, inchiodati uno alla destra ed uno alla sinistra (Luca 23,33). E così si compie una profezia che Gesù aveva intuito già prima, parlando della sua morte redentrice (Luca 22,37):  Fu annoverato tra i malfattori…tra gli empi!”.
Se Gesù può salvare, è perché prima di tutto ha condiviso. Prima è stato un fratello, anche nel dolore e nel disprezzo. Poi è diventato il Salvatore.
Salva poiché ha condiviso. E solo se si condivide, si è in grado di salvare, perchè non dici parole vuote, perché non poni segni scontati. Ma quello che dici è quello che hai vissuto e sofferto. Il tuo dolore si fa porta aperta al dolore altrui.
Ma è anche vero il contrario: lo sguardo amabile al dolore altrui apre il tuo dolore ad una dimensione di solidale vicinanza e condivisione.
Proprio così Gesù risale dal fondo dell’abisso del suo grido straziante.
Si guarda attorno. E’ costretto a farlo, perchè richiesto dal duplice atteggiamento dei due ladroni, che lo circondano. Sono le due facce del dolore.
Da una parte, il rifiuto che diventa bestemmia e insulto, senza alcun timore di Dio: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!” (Lc 23,39).
Ma dall’altra, ecco la pacata accettazione del dolore, che si fa solidale comprensione nel cuore: “Noi siamo dannati a questa pena giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni…Egli invece non ha fatto nulla di male!”. (Luca 23,41).
Proprio da questo sguardo di affettuosa condivisione Gesù “si accorge” di non essere solo a soffrire. Di avere accanto qualcuno che soffre come lui e, forse, più di lui, perché soffre bestemmiando. Anche Gesù grida per il dolore. Ma Lui cerca. Invoca. Ed incrocia il dolore dell’altro. E quel dolore lo tira fuori dal suo dolore, pur acutissimo.
E’ l’Esodo: Hai spezzato le mie catene.
E quella parola lascia nel cuore di chi soffre tre certezze: Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno.
Dio si ricorda di te, che sei nella prova. Perché Dio non fa altro che pensare a noi. Ha progetti di pace e non di sventura (cfr Geremia 29,11). Si piega e ti raccoglie, proprio mentre stai per cadere. Ti solleva e ti apre il cuore.
Ti libera oggi, proprio oggi. Non tarda. Non rinvia a domani. Perché quando nella Bibbia appare l’Oggi, è il cielo che scende e la felicità riempie il cuore. Sempre.
Perché È IL PARADISO che si apre. Quel giardino di luce, fecondato dall’acqua della vita, nel tempo dell’Eden, è quel cuore che si apre per chi ha rubato ed ucciso, violando l’albero della vita.
E’ un raggio di paradiso quello che scende a rischiarare il viso delicato di Gesù e sfiora a riverenza lacrime amare, di infinita dolcezza.
E quel raggio di paradiso, oggi, incontra quel viso di ladrone, che gli sta accanto, bersaglio di giudizi e di vendette.
E’ pace senza tramonto quella che sussurra il Signore al cuore di quel peccatore, che, pentito dei suoi delitti, prova solo rabbia e ribrezzo quando sente che l’altro malfattore, come lui, appeso sull’altra croce, insulta Gesù!
Quell’uomo, finora vissuto nel male, ora ammonisce e disapprova coraggiosamente il gesto infame. Parole di immensa contrizione, scaturite proprio dallo sguardo a Gesù, che lui vede condividere fino in fondo il dramma di quell’ora di morte tragica.
Quel cuore, così misero, ora trabocca del Timore di Dio.
Nel riconoscere Dio in Gesù, il buon ladrone trova la forza della fede denuncia il male, l’ingiustizia, l’errore tragico che gli uomini, che il Sinedrio e Pilato hanno commesso nel condannare Gesù. Diviene testimone della divinità di Gesù, che altri, deputati a questo, non sono stati capaci di compiere: Ho peccato contro di te, Padre, non sono degno di essere tuo figlio…ma tu salvami ed accoglimi nella tua casa!”. Sono le stesse parole, raccontate proprio da Luca, che ha detto, commosso e piangente, il figlio prodigo al Padre che gli corre incontro, pronto ad accoglierlo, rinnovato, nel Paradiso della sua casa in festa, con l’abito nuovo e l’anello al dito, in un banchetto di letizia, Eden finalmente riaperto dall’Amore!
Proprio a lui, che lacrima di umiltà e di speranza, il Signore mostra il suo Volto santo e rapisce l’anima da tutti i suoi pesi, delitti e rimorsi, per portarla con sé, diritto, in paradiso. Un perdono anticipato, già dato. Un dono già elargito e benedetto. Un posto nella gioia senza fine. Proprio a lui, pecorella smarrita, ora portata con gioia sulle spalle, nella casa, per far festa con gli amici e i vicini.

In un pallio vescovile, che si fa stile di una chiesa che sa andare incontro soprattutto a chi soffre di più, a chi ha sbagliato con evidenza, a chi nel cuore ha una spina più grande.
Nulla richiede quel Gesù, dolcissimo, se non quello di credere al suo Amore senza fine. Le colpe si dileguano, regna un senso di pace e di libertà sconfinata, davanti alla porta del paradiso, pronta a schiudersi ed accogliere chi ha scelto di appartenere a Gesù, a schierarsi per lui e con lui. Si lascia amare, redimere, salvare, benedire quel ladrone proprio da quel Gesù ingiuriato, calunniato, maltrattato.
Ed insieme, rimangono per sempre avvolti, accarezzati, consolati da quel raggio di paradiso, sorriso del Padre Misericordioso.
Dio con l’uomo. Ed ora, l’uomo con il suo Dio!
Occhi che si cambiano amore. Il divino e l’umano si fondono in un canto di benedizione perenne: “In verità ti dico: Oggi sarai con me in Paradiso!”.
Il perdono di Cristo è la certezza di vivere con Dio sempre accanto.

Terza parola: “ECCO TUO FIGLIO… ECCO TUA MADRE!

E’ nel dialogo quotidiano con mia madre, ora quasi novantenne, sofferente e ferita nel braccio, dai movimenti lenti ma dall’animo sempre vigile ed attento, che rileggo nel mio cuore di figlio questo brano. In un dialogo di reciproco amore intessuto di reciproco dolore. Amore e dolore che nel cuore di una mamma sono sempre inscindibili.
Perché la mamma è tutto.
Perché ella è un pezzo incancellabile della nostra storia personale e sociale.
Per tutti, anche per Gesù!
E lo ripenso, mentre prego, ad un gesto di dolcezza, sgorgato alcuni giorni fa, una Domenica mattina, quando la neve copriva buona parte del nostro piccolo giardino, in episcopio, a Campobasso. Ebbene, pur nel freddo invernale di questo lungo e gelido inverno, in un angoletto un po’ soleggiato, mi accorgo che c’era una piantina di viole; mi piego e vedo tra le foglie verdissime una violetta profumatissima. Quasi un simbolo. Subito la porto a mia mamma e con lei sentiamo che nel ghiaccio della malattia e del dolore entra una forza più grande, la forza dell’amore, che sa sciogliere ogni gelo.
Così credo che possa essere paragonata la presenza di Maria sotto la croce: come un fiore profumatissimo, che scioglie il ghiaccio più duro.
E’ la sua mamma Maria, con l’amico più caro, Giovanni.
C’è stato il buio, squarciato dall’intensa appassionata preghiera di perdono.
C’è stato il dialogo con il ladrone pentito, fatto pezzetto di paradiso in terra.
Ma ora c’è anche Maria, sotto la croce. E Giovanni. Uno sguardo filiale, un intreccio d’amore nel buio del suo immenso straziante dolore.
Un profumo di viole dentro il ghiaccio del dolore.
Un pezzetto di cielo, fatto famiglia solidale nel dolore.
“Stabat Mater dolorosa…!”
Quello stabat, in lingua latina, dice tutto. Dice lo stare accanto, lo stare in piedi, quello stare vicino a chi soffre con una dignità altissima.
Non parla, Maria, ma dice tutto con la sua presenza. Con il suo silenzio. Perché una presenza vale più di una parola. E’ fedeltà, è condivisione, è compagnia.
Come Rut all’anziana e sofferta Mara, che vuol dire amarezza. Non si sente più Noemi, cioè dolcezza, ma Mara, amarezza. Ed è proprio a lei che la giovane Rut, amica fedele,  dice con parole di immensa condivisione: “Non insistere con me che ti abbandoni e torni  indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io, dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e ivi sarò sepolta, perché nulla oltre la morte mi separerà da te” (1,16-17).
Questo è l’amore, gratuito, fedele fino alla morte.
E questa è Maria sotto la Croce.
In questa fedeltà, Gesù allarga ora la sua liberante attenzione all’altro. Dal ladrone pentito alla sua famiglia. A sua mamma che condivide con lui, ai piedi della croce, quell’immenso mistero di iniquità. Dolore acutissimo per Gesù. Ma dolore doppio per la mamma, perché il cuore di una mamma, ai piedi di un letto di ospedale, soffre sempre il doppio rispetto al dolore di un figlio! L’amore rende fedeli sia Maria che Giovanni. Spinte diverse, ma unico gesto fedele.  E Gesù li guarda. Uno sguardo che si intesse di ricordi ripercorrenti una vita intera. Lui e sua madre ripercorrono in un solo guardo tutti i momenti che hanno vissuto nell’esistenza terrena, insieme: la sua nascita, la sua fuga in Egitto, le sue capriole, il suo smarrimento nel tempio, angosciante anticipo di questo abbandono. Ed ancora la quotidianità con Giuseppe in una fedeltà dolcissima, la sua complicità a Cana dove è chiamata proprio “donna!”, le sue confidenze, i suoi miracoli, le sue parabole, la sua Parola benedicente sul monte. E lei sempre vicina, sempre accanto, dentro un mistero di fede crescente, non sempre facile, a tratti assurdo.
Come quel giorno di rifiuto di Gesù, a Nazaret, amarissimo, perché tanto atteso, proprio dentro quella sinagoga che lo aveva visto crescere.
Ma anche la dolcezza di Betania, la polvere dei sentieri di Galilea, la luce sul monte della trasfigurazione, la tenerezza del cenacolo, il profumo del pane eucaristico, l’orto degli ulivi.
Tutto viene ridisegnato da quello sguardo. Fino a questa straziante agonia, reciproco dolore in reciproco amore.
Quale amarezza nel vedersi trafitti di dolore, nel non potersi più abbracciare, come quando alla luce fioca dei colori impercettibili del vespro, lei se lo adagiava tra le braccia e le cullava amorevolmente, pur sapendo che un giorno, questo giorno, lo avrebbe dovuto offrire, non più suo, passando nel gelo della morte.
Fitte feroci si curvano e si spargono nel ventre di colei che ha partorito l’Onnipotente, il più bello tra i figli dell’uomo. Ma Lui, Gesù, presenta con voce rassicurante, al mondo intero la nuova madre. Di tutti, non più solo sua. La affida ai mortali, eleggendola unica loro Madre: Donna ecco tuo figlio. E poi, volgendosi al prediletto, il mite Giovanni, che sorregge Maria, dice: “Figlio, ecco tua madre!”

E’ un accogliersi reciproco, un affidarsi vicendevole, sotto la croce, mentre sopraggiunge il buio della morte. L’umanità diviene ora finalmente FAMIGLIA. Da qui, da quel dolore fecondo e fecondante, inizia a comporsi la Chiesa, proprio lì, ai piedi della croce. E’ Dio che parla e chiama “donna” sua madre, come a Cana, come nel dolore del partorire nella Genesi, come nel combattimento con il dragone dell’Apocalisse. Donna, cioè regina, signora, vincitrice.
E Giovanni diviene suo “figlio”. In lei, che è donna e madre, compagna e riparo, lui, l’uomo trova se stesso, adempie la comunione perfetta, rivelando il vero volto della creazione e della vita. Gesù lascia, consegna, dona sua madre al mondo, perché lei stringa ora al suo seno tutti gli uomini, suoi figli. E Giovanni la prende nella sua casa. Tra le sue cose più care. Tra i tesori più preziosi della sua storia. La prende nel suo cuore di figlio.
C’è lei, la madre, che tutto avvolge d’amore.
Da questo momento, Maria è la Madre della Chiesa; è la nostra Madre.
Quella Chiesa nata sotto la croce. Segno che ogni comunità, per nascere e crescere, vivrà sempre nella logica del chicco di grano. Che viene generato dall’amore, perché schiacciato nel torchio dell’amore, la croce. Maria garantisce così la realtà dell’umanità di Gesù.
Senza questa umanità, infatti, c’è sempre il rischio che il Cristo svanisca in un’idea o in un sistema. E quando si concettualizza la fede, si cancella Maria. La fede diventa un sistema, un’ideologia, un insieme di valori, un semplice codice normativo
Ma è vero anche che quando Maria resta ai piedi della croce, la nostra fede si invera sempre più. Perché “il Verbo si è fatto carne!” (Giovanni 1,14). E  nasce un’umanità nuova, sempre da una madre che soffre ed offre. Il suo dolore per amore.
Come la FAMIGLIA, ogni famiglia, che nasce sempre da un dolore offerto per amore. Nessuna famiglia regge se non c’è questa disponibilità a donare per amore,  tutto. E’ troppo poco la simpatia, l’attrazione sessuale ed affettiva, il trovarsi bene, il puro sentimento. Tutto fragile, tutto passeggero. Regge solo questo dolore condiviso ai piedi della croce, un dolore offerto per amore. E da quel momento, il discepolo la prese nella sua casa!”. Ecco la famiglia, ecco l’umanità dal cuore nuovo! Qui dov’è la Madre e il figlio, si realizzano la fiducia e  la confidenza come continuazione dell’unione di vita intima in Cristo.

Quarta parola: “DIO MIO, DIO MIO, PERCHE’ MI HAI ABBANDONATO?

E’ la parola centrale. Posta nel mezzo. Che raccoglie il cammino d’amore nel perdono, si lega all’accoglienza riservata al ladrone, contempla le lacrime sul volto dolcissimo di Maria e di Giovanni. Ma ora Gesù scende veramente nel profondo delle viscere della terra, quasi negli inferi dell’abisso del suo dolore. Che è il dolore dell’umanità tutta: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Solo da questo abisso, risalendo, Gesù potrà illuminare il nostro enigma. E abbandonarsi fiducioso nelle mani del Padre, portando a pienezza il suo itinerario d’amore, che sono queste Sette parole sulla croce.
Questa è perciò una parola chiave nell’itinerario d’amore.
Ancor più drammatica. E’ parola fatta grido di dolore acutissimo.
Le tenebre hanno avvolto l’intero universo. Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si sono sparse su tutta la terra, come ci narra Matteo (27,45). Intense, avvolgenti, accolgono il mondo intero, come le tenebre iniziali del mondo, nel caos primitivo. Caos che si fa angoscia esistenziale. E diviene dramma, perché Gesù si sente come il popolo d’Israele mentre cercava di uscire dall’Egitto: davanti il mare, il deserto ai lati e i nemici alle spalle: nessuna speranza, nessuna via d’uscita. Ma ecco che anche quel popolo, in fuga verso la libertà, grida, grida forte.
Come grida ognuno di noi quando è immerso in un dolore indicibile.
Per Gesù, quella corona di spine inquinate si conficca terribilmente, affonda nella sua fronte gloriosa, fino a aderirsi a tutto il suo cranio. La fatica a respirare è indicibile. Il sangue esce a fiotti. La morte avanza e lo assale, implacabile e devastatrice.
Soprattutto si sente solo. Tremendamente solo. Solo sulla croce, tra dolori acutissimi. Tutto gli sembra fallito, tutto gli pare inutile e vano. Ogni realtà frantumata, ogni relazione spezzata. Addirittura inutile quel suo soffrire acutissimo.
E il Padre? Quel Padre con cui Gesù ha sempre dialogato, nelle preghiere affettuose del mattino, quando era ancora buio, ai bordi di Cafarnao, dov’è? che fa? Perché non risponde?
Ma quello era un buio che, nella poesia del lago, si rischiarava adagio adagio di dolcezza, in colori tenui e in luce crescente, nell’attesa di quel sole che sorgeva sui buoni e sui cattivi. Segno di un Dio, Padre, che amava ogni cuore spezzato ed ogni relazione infranta la sapeva ricucire. Qui, invece, sulla croce, anche quella relazione con il Padre sembra si sia spezzata definitivamente. Il dialogo si è interrotto. Il Padre non risponde, resta muto. Come Giobbe, nel suo assurdo dolore: “Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole? Sono dieci volte che mi insultate e mi maltrattate, senza pudore…Sappiate dunque che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete!” (l9,2-3.6).
E allora Gesù emette un grido, un tremendo lamento, che scuote le radici del sottosuolo e gli astri della volta celeste: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E’ l’inizio del salmo 21, che sgorga dalle labbra arse dalla sete di Gesù e dal suo cuore di infinito dolore. Non è un’invocazione né una preghiera. Ma un grido! Un “perché?” urlato al cielo. A quel Dio che sembra muto. Lontanissimo.
E’ il salmo che delinea la figura del giusto che soffre, di un uomo giunto alla disperazione per l’assenza di Dio. Si sente perduto. Si vede fallito. Vive una situazione tragica, acutizzata da segni di tortura: cani e tori che lo assalgono. I soldati che lo deridono, la gente che le beffeggia, i passanti che lo ridicolizzano: “ha salvato gli altri, salvi se stesso…scenda ora dalla croce e gli crederemo” (Marco 15,29-32). Attorno a lui solo gente che scuote il capo e insulta.
Nasce perciò un dialogo vigoroso, una vera e propria lotta con Dio.
Ecco come descrive, acutamente, questa situazione la lettera agli Ebrei: “nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo dalla morte…”! (5,7).
Sono i giorni della sua “carne”, fragile e povera come la nostra. Quella “sarx”, che san Paolo acutamente descrive come la nostra polvere, nella quale siamo anche noi immersi. Ma lo era anche Lui, il nostro Signore Gesù. Anch’egli fatto polvere, fragilità, disperazione, debolezza, amarezza. Proprio come noi, a implorare e supplicare. Con grida veementi e lacrime amare.
Le tenebre esterne si fanno le tenebre del cuore. Una tragedia spirituale, che avvolge anche noi, spesso, di fronte al dolore. Specie a quel dolore cui non si è preparati. E, a dir il vero, di fronte al dolore non si è mai preparati!
E’ il grido di Auschwitz e della Shoah. E’ l’anelito della Palestina di oggi. E’ il dramma dell’Afganistan e dell’Iraq, che pagano colpe più grandi di loro. E’ il grido dei paesi poveri e abbandonati in questi amari tempi di crisi, dove i poveri divengono sempre più poveri. Sono i nostri paesi del Molise, con pochi bambini, dove le industrie chiudono, i disoccupati aumentano, i giovani non trovano lavoro. E tanta solitudine nelle case.
E’ il momento di crisi di un fondatore e di una fondatrice.
Quel grido l’ho sentito acutissimo negli ospedali e nelle carceri. Specie nei primi giorni di ingresso. Quando la vita si spezza. Tu passeggi tranquillo in città ed un ragazzo, sgommando, perde l’equilibrio e ti spacca il femore. Finisci in ospedale e gridi. Gridi impazzito, perché la tua vita, improvvisamente ed ingiustamente, cambia di colpo.
Oppure, tutto viene distrutto da una devastante tempesta sul campo di grano maturo. Mesi di lavoro perduto, in un attimo, per contadini sempre più dimenticati. O un concorso ben preparato, che sfuma per una domanda capricciosa.
E’ il giorno dell’incomprensione nella vita di coppia, quando non ci si capisce più e si sperimenta amaramente quella solitudine che ti inebetisce. E vorresti anche tu “gridare”, follemente, il tuo dolore perché il cielo si ricordi di te…! E chiedi al vescovo che ti “dia una pacca sulla spalla…!”. Per andare avanti. Anche se solo. Come quel Gesù sulla croce, senza la tua sposa, perché si è stancata di te…!
E’ la tosse, il grido invisibile di Eluana, di fronte al dramma della sua morte procurata. Ma è anche il dramma di tante famiglie davanti ad un dolore immenso, spesso portato da sole, in soffocante solitudine. Una società che non comprende, non capisce, non sta vicino. Si fa beffe di chi soffre, scuote il capo, lancia ironie. Non accompagna.

Ma c’è anche, in questo grido, la ricerca appassionata della verità di un mondo più giusto e più bello, nel cuore di tanti giovani, non contenti di quello che viene loro offerto dalla vuota società degli adulti: Perché ti rattristi, anima mia? Perchè su di me gemi?. Tra la beffa dei gaudenti, che lanciano ai credenti di ogni tempo una sfida acutissima: “Le lacrime sono il mio pane, giorno e notte, mentre mi dicono sempre: Dov’è il tuo Dio?” (Salmo 42-43) E quel nostro cuore si strugge, nella sete di Dio, del Dio vivente.
Al punto che anche il salmista grida nella vana ricerca della speranza: “Dirò a Dio mia difesa: perché mi hai dimenticato? Perché triste me ne vado, oppresso dal nemico? Per l’insulto dei miei avversari, sono infrante le mie ossa”!.
E’ quello che fu opportunamente definito: il Gesù abbandonato!

Eppure… anche qui, in questa notte oscura della disperazione, quel grido di Gesù non è solo solitudine amara.
E’ un incontenibile bisogno di essere abbracciato, consolato.
A leggere bene, quel grido ha dentro un infinita sete di speranza. Non è una preghiera di liberazione dal dolore rivolta al Padre, ma è il grido disperato che Gesù porta fuori da suo petto, quando sente squarciarsi il cuore dal bisogno estremo, eccessivo, assoluto di amare. Gesù vive  l’abbandono del Padre, ma tende e cerca l’abbandono nel Padre.
E’ in verità il grido che Cristo prende dal cuore degli uomini che stanno uccidendo il loro Creatore e Salvatore. Gesù presta la sua voce che supera ogni voce umana, che è la sola che ha il potere di varcare i cieli e di raggiungere il Cuore del Padre, per accendere la fiamma della suprema, ultima compassione e rivelare così agli uomini che non saranno mai abbandonati al loro destino, da quel Dio che li ha generati alla luce della vita perenne.
E’ in fondo Gesù che riferisce e confida a Dio la paura e l’afflizione immensa e nascosta dell’uomo peccatore.
E’ sempre Gesù che sovrasta i cieli con la sua supplica di non abbandonare queste fragili creature, che si stanno macchiando di un delitto così orribile.
E’ ancora Gesù che trae in salvo quanti si affondano nella gola del male, perché ha risposto al loro grido di desolazione, col suo grido di perdono e di grazia.
E’ infine Gesù che non si scandalizza dei peccati e dei crimini degli uomini, pur se essi l’hanno trattato e considerato ingiustamente come Uomo di scandalo.
Così Dio non è lontano, ma è proprio dentro quel grido di dolore, in quell’abisso incredibile di amore e di sacrificio.
A ben ascoltare questo grido, nel pregarlo nel cuore nostro impastato di paura e di dramma, già si intravedono, pur se timidamente, le luci dell’alba. Come dice il salmo 21, nel cuore della notte: “loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre…io vivrò per lui!”.
Non è dunque l’assenza di Dio che grida Gesù, ma l’assenza a Dio, il rifiuto del suo bene, la mancanza d’amore e di fede in Lui.
Mai Dio potrà dimenticarsi dei suo figli né abbandonarli. Perché l’uomo mai potrà fuggire dalla gratuità della sua tenerezza.
Perché tutto può essere tolto. Ma mai il suo Amore.

A LIVELLO PASTORALE.
Questa parola di tragica fatica a credere, nel silenzio assordante di Dio, in quel “perché”, senza risposte…vi scorgo il dramma di tanti che di fronte al dolore non amano sentire chiacchiere. Né vogliono risposte scontate. Non gradiscono accanto al letto persone superficiali o facilone. Che sanno tutto…!
Meglio il silenzio di una parola vuota. Meglio il rispetto, piuttosto di una vicinanza formale. Meglio parlare di sport che di dio, in certi momenti acuti di dolore. C’è il tempo della “rabbia”, che non va mai giudicato, ma sempre e solo rispettato, con immensa pazienza e fiducia. Con il sorriso. Con quella compenetrazione che ti rende il volto vicino, attento e non giudicante.
Nessuno giudichi chi grida per il dolore.
Anzi, i veri volontari e i grandi medici sanno che quella fase è in certo senso necessaria. E un prete che sa molto amare, sa anche molto capire. Non si stupisce, non ha fretta. Ma accarezza, prende la mano, asciuga lacrime, porta un fiore, guarda con simpatia. Sempre. Ma specie all’inizio della sofferenza. quando il grido è già esso stesso preghiera.
Come per Gesù. Perché in quel grido, Gesù ci aiuti a leggere la vita nostra con il suo cuore. Di chi cioè soffre in silenzio. In attesa e pazienza. In quel rispettoso attendere, a ben guardare, senti che il grido di Gesù già si fa preghiera, già diviene amore e tenerezza, perché l’Amore di Dio riluce di una inattesa rugiada mattutina!
Tutto ora è chiaro perché abbiamo tanto insistito su questo parola. Perché è il punto più basso del Mysterium iniquitatis. Che lentamente, parola dopo parola, si sta facendo Mysterium salutis! Abbandonarsi tra le braccia di Dio significa fare della propria sofferenza una preghiera  vivente rivestita di Cristo.

Quinta parola: “HO SETE!

E’ la terribile arsura della morte, specie quel tipo di morte che faceva perdere tantissimo sangue e rendeva lancinante ogni gemito.
E’ la distruzione di quel corpo di cui la sete è ossessiva manifestazione palpabile.
Una spugna di aceto passa sulla labbra di Gesù. Le sfiora, le tocca soltanto, perché egli non ne vuole assaggiare.
E’ un misto di tenerezza e di amarezza insieme, che i salmi così esprimono: “E’ arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola!” (Salmo 21,16).
Ma ancora più cocente è la constatazione: “Quando avevo sete, mi hanno dato da bere aceto” (Salmo 98,22).
E’ sete vera, cocentissima, lancinante.

Eppure, come sempre ci fa intuire l’evangelista Giovanni, c’è in quelle parole un senso più grande, un significato più nascosto.
Gesù infatti non ha solo sete fisica, ma soprattutto una immensa sconfinata sete d’amore.
La mistica ha raccolto quel grido e ne ha fatto, infatti, un grido d’amore, di passione per noi uomini, di raccolta di ogni pecorella che si smarrisce.
E’ la richiesta più estrema, più totalizzante del suo Vangelo, perché in essa divampa incessante l’attesa di Dio, che si sparge tramite sospiri infiniti, per tutta la creazione, che, come ci narra san Paolo, è anch’essa attraversata da gemiti inesprimibili, come le doglie del parto per una nuova creazione (Romani 8,22).
Par di sentire la voce di Gesù al pozzo di Sicar, lungo l’assolata Samaria, nel pieno mezzogiorno: “Dammi da bere!”, dice alla Samaritana.
E’ la sorgente che cerca l’assetato. E non più l’assetato che cerca la sorgente.
O meglio, entrambi si cercano: la sorgente e la gola riarsa.
Intrecciati insieme, in un unico grido d’amore.
Che ben ha colto Madre Teresa, che ha fatto di questo grido biblico l’icona spirituale e pastorale del suo cammino.