Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, denuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, ado­rare Dio e umiliare i suoi fi­gli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, co­me il fariseo, con un pecca­to in più. Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sba­gliato: ti ringrazio di non es­sere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. Non si con­fronta con Dio, ma con gli al­tri, e gli altri sono tutti diso­nesti e immorali. In fondo è un infelice, sta male al mondo: l’immoralità dilaga, la disonestà trionfa… L’unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. Io digiuno, io pago le decime, io… Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, strega­te, che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a nien­te, è solo una muta superfi­cie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male, e il male sono gli altri. Che è un modo terribilmente sbaglia­to di pregare, che può ren­derci «atei». Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane.

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