07 AGOSTO 2011

XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Dal primo libro dei Re 19,9.11-13

Dal Salmo 84

Dalla lettera di San Paolo ai Romani 9,1-5

Dal Vangelo secondo Matteo14,22-33

Fermarsi alla presenza del Signore è ciò che hanno fatto, con cuore sincero, tante persone nel corso dei secoli: eremiti, monaci e monache sparsi in mille monasteri o nelle grotte, sacerdoti di parrocchie piccole e grandi, collocate nelle metropoli o sperse sulle montagne. Ancora oggi, persone di ogni condizione, giovani e vecchi, accolgono l’invito rivolto ad Elia e si fermano davanti all’Eucarestia, magari nella solitudine e nel silenzio della notte.

Cappelle, chiese, eremi testimoniano al mondo che è necessario riscoprire la bellezza del fermarsi davanti al Signore. La gente si interroga di fronte alle presenze silenziose di uomini e donne dinanzi ai tabernacoli; molti non comprendono il senso di questo “fermarsi” eppure chi ha vissuto l’esperienza, pur nella semplicità e nell’umiltà, conosce la bellezza del “lasciarsi guardare da Dio”.

È noto l’aneddoto del santo curato d’Ars che ogni giorno incontrava un vecchietto seduto in fondo alla chiesa in silenzio. Un giorno il curato gli chiese: -Come mai guardi il tabernacolo per tante ore? Cosa dici? -Il vecchietto rispose: -Non dico niente. Io guardo Lui e Lui guarda me!-

Ricercare la presenza del Signore deve essere il segno che contraddistingue il nostro cammino di fede. Come nella vita quotidiana sperimentiamo la differenza che passa tra la definizione di amore e l’essere amati, così nella vita spirituale: è giusto possedere i contenuti della fede per non correre il rischio di crearsi una religione a misura di se stessi, ma è altrettanto necessario fare esperienza di Dio.

«Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore» è il percorso da compiere: uscire da se stessi, dai propri legami e dai propri affanni, per fermarsi alla presenza del Signore.

Il brano tratto dal primo libro dei Re ci aiuta anche a discernere le caratteristiche di questa “Presenza”: non è nel vento impetuoso, né nel terremoto e neppure nel fuoco, ma nel “sussurro di una brezza leggera” come a dire che la presenza di Dio non ha bisogno di una scenografia roboante.

Questo “sussurro di brezza leggera” ci suggerisce che la presenza di Dio può essere talmente delicata da non essere avvertita, così discreta da non essere riconosciuta, tanto misteriosa da non essere percepita.

Allora cosa fare? Forse dobbiamo veramente fermarci invece di continuare a correre. Bisognerebbe impegnarsi un po’ di più nel cercare il tempo per stare con il Signore, magari in un luogo raccolto, appartato, in solitudine. L’estate può essere l’occasione favorevole per vivere qualche giornata in maniera nuova e arricchente. Pur rispettando la nostra libertà, infatti, Dio desidera continuamente entrare in colloquio con noi non solo per accogliere gli sfoghi e le amarezze, ma soprattutto per consolarci, per farci gustare “quanto è buono”.

Come è possibile trascurare una relazione dove l’altro è Amore senza fine? Se avessimo gustato una sola volta la profondità di questo stare con il Signore correremmo in continuazione davanti ai tabernacoli.

Il brano del vangelo di Matteo ci racconta come Gesù viveva ogni giorno tutto questo: “Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo”.

È il tempo, prezioso e irrinunciabile per stare con il Padre, fermarsi, pregare, ringraziare, ascoltare, amare e lasciarsi amare. Tutti i vangeli sono intessuti di questi continui colloqui di Gesù con Dio Padre: essi dicono la familiarità, la confidenza, la fiducia che c’è tra un padre e un figlio.

Gesù ama questi appuntamenti: appena può, si ritira in disparte e prega, ma questo non significa disinteressarsi del mondo. Egli, infatti, sa che i discepoli sono sulla barca e che il mare è in tempesta e infatti:“ Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare”.

Mentre la tempesta infuria non c’è appiglio che tenga e i discepoli non possono fare altro che urlare mentre “Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».

I discepoli gridano, Gesù parla: da una parte la paura, l’incertezza, la precarietà, dall’altra la rassicurazione, l’equilibrio, la pacatezza.

Quante tempeste ci hanno travolti nella vita? Quali problemi ci sono sembrati così insormontabili da farci gridare dalla paura? Quale sofferenza è stata talmente forte da impedirci di vedere oltre il buio della prova? A quali fantasmi abbiamo chiesto aiuto invece di afferrarci alla mano che Gesù ci tende?

Signore, crediamo di avere sempre il controllo dei sentimenti, delle relazioni e persino delle persone, ma allorquando i fatti non corrispondono alle nostre aspettative ci sentiamo come in balia della tempesta e ci spaventiamo. Solo quando i venti tumultuosi della prova si alzano contro di noi ci rivolgiamo a te. Allora desideriamo sentire la tua voce che ci dice: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Come Pietro, vogliamo gridare: «Signore, salvami!» e sentire la tua mano che “subito” ci afferra. Perdona la nostra poca fede, Signore, e l’incostanza nel seguirti. Donaci la capacità di vedere oltre il buio, oltre il dolore, oltre le paure che spesso ci attanagliano. Non sempre comprendiamo la sofferenza, ma tu ”sul finire della notte”, vieni in nostro soccorso, sempre, così come hai fatto con i discepoli. Amen.

CB 07.08.2011 MTM