11 SETTEMBRE 2011

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Dal libro del Siràcide 27,33-28,9

Dal salmo 102

Dalla lettera di San Paolo ai Romani 14,7-9

Dal Vangelo secondo Matteo 18,21-35

In questa 22^ domenica del tempo ordinario ci troviamo davanti ad una scomoda coincidenza: la liturgia della Parola che parla di perdono e il decennale della distruzione delle torri gemelle di New York, tragedia immane che ha fatto nascere desideri di vendette purtroppo attuati che hanno generato altro dolore e altre morti. I canali televisivi mostrano, continuamente, le drammatiche immagini di quel triste giorno. Catturati dai media di tutto il mondo la sofferenza, la paura e lo sgomento, stampati sui volti della gente, sono rimasti come monumenti posti a ricordare ad ognuno di noi la fragilità dell’uomo. Quante domande intorno a quelle migliaia di morti e quanta incapacità di dare risposte! Una campeggia davanti a noi oggi: si può perdonare quel tipo di male?

Il vangelo di oggi ci mostra una scena che, ad una prima lettura, sembra non debba riguardarci perché forse non ci sentiamo abbastanza debitori; ci collochiamo fuori dalla scena descritta, ma non al di là della domanda di Pietro: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».

È inquietante vedere come il discepolo parli solo delle colpe degli altri e come metta un limite al perdono. Sì, ha una qualche disponibilità a perdonare, ma non oltre una certa soglia ben chiara e delimitata.

La domanda di Pietro è la nostra, anzi a noi il limite posto dal discepolo sembra persino troppo generoso. Quando qualcuno ci fa del male non siamo disposti a perdonare: non ci sembra giusto perdonare un “colpevole”. Nel nostro bagaglio il perdono non ha molto spazio.

Gesù risponde elevando il calcolo del perdono all’ennesima potenza, cioè all’infinito: niente bilancia, nessun conteggio, solo un perdono gratuito, pieno di amore.

Tutto questo ci sembra destabilizzante e lo è se ci ostiniamo a conservare dentro di noi le vecchie radici del peccato “Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro” .

Gesù morto e risorto ha sradicato la legge del peccato e ne ha piantato una nuova: la legge del perdono. La nostra colpa è stata inchiodata sulla croce, una volta e per sempre. Colui che è il “senza peccato” si è fatto peccato per scontare ogni sbaglio al posto nostro.

Davanti al crocifisso la domanda di Pietro, ragioniere del perdono, perde di significato: non possiamo porre un limite se noi stessi abbiamo goduto di un abbuono totale e per sempre, senza averne alcun merito.

Non è facile comprendere questa verità, come non lo è accogliere la grazia di sapersi perdonati; dobbiamo ancora scoprire la bellezza della misericordia infinita di Dio che significa poter ricominciare a vivere, nonostante i nostri errori.

Quando ci accorgiamo di aver sbagliato, di aver fatto un torto a Dio o ad una persona o a noi stessi, dobbiamo sapere con certezza che Dio è più grande del nostro peccato e ci perdona.

È necessario fare un’esperienza profonda di perdono. È una grazia da desiderare e da chiedere. Nella misura in cui sperimentiamo il perdono possiamo, a nostra volta, concederlo. Il perdono non è uno sconto, né un’occasione in saldo: perdonare appartiene alle qualità altissime di Dio perché significa amare oltre ogni limite.

Il regno dei cieli, dove gli avvenimenti riconquistano il loro pieno significato, “è simile ad un re che volle regolare i conti con i suoi servi”. Tutti hanno un debito, ma uno, in particolare, deve al re una somma ingentissima, pari quasi al bilancio di un’intera… provincia. Inaspettatamente gli viene condonata, il debito è azzerato e il servo, che stava per essere messo in prigione, torna ad essere libero, vivo e la sua gioia è incontenibile. Per il servo debitore è un passaggio dalla morte alla vita, un fatto che non poteva né immaginare, né tantomeno sperare. Ma nella ritrovata libertà non c’è posto per la compassione: infatti, poco dopo, il servo non è capace, a sua volta, di abbonare un piccolo debito ad un suo debitore. Lui, grande insolvente, sollevato da ogni problema, non è capace di perdonare il poco che deve riavere perché “Rancore e ira sono cose orribili e il peccatore le porta dentro”.

Dal re era sgorgato come un fiume di perdono che doveva essere trasmesso agli altri, ma il servo malvagio pone uno sbarramento, impedendo al perdono di giungere, attraverso di lui, al suo debitore.

Venuto a sapere cosa aveva fatto il servo malvagio, il re lo fece catturare e lo rimproverò: “Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”, quindi lo fece imprigionare, condannandolo a restituire ciò che doveva.

Cosa impariamo da questa parabola? Scopriamo di avere, come ogni uomo, una memoria che viaggia a corrente alternata: dimentica facilmente il perdono che ci viene dato, ma ricorda sempre il male ricevuto. Il libro del Siracide ci invita a dimenticare gli errori altrui. Covare rancore sta alla base di molti disagi fisici e psichici, mentre perdonare significa guarire spiritualmente, tornare a vivere liberi.

Signore Gesù, abbiamo i tratti del servo grande debitore. Quando ci fanno del male siamo incapaci di perdonare e conserviamo nel cuore “rancore e ira”. Concedici di scoprire, ogni giorno di più, l’abisso di misericordia che è nel cuore del Padre. Amen.

CB 11.09.2011 MTM