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Il lungo discorso sul pane di vita è terminato. Il vangelo di Giovanni riconsegna il testimone a quello di Marco che, attraverso una pagina densa e interessante, svela il nome della difficoltà di fede messa in evidenza dalla «parola dura» che il Maestro Gesù ci ha rivolto in queste domeniche estive. Si chiama cuore «impuro» (Mc 7,23) l’ostacolo che ci impedisce di entrare in sintonia profonda con Dio e la sua offerta d’amore.
Da sempre l’uomo avverte il bisogno di pulirsi e purificarsi in certi momenti importanti della vita. Tra questi, rientra anche l’ambito del sacro, il tempo e lo spazio nei quali l’uomo si mette in relazione con il Dio vivente e invisibile. I «farisei» e gli «scribi» (7,1) avevano ereditato e tramandato una cospicua «tradizione» (7,3) di regole e precetti, utili a disciplinare con «saggezza» e «intelligenza» (Dt 4,6) il rapporto con il Signore. Tra questi c’erano anche le famose «abluzioni» delle mani e le «lavature» (Mc 7,4) degli oggetti. Il senso di queste norme potrebbe risultare lontano o estraneo alla nostra sensibilità moderna, molto laica e ormai affrancata da certi formalismi religiosi. Tuttavia, conviene ricordare che anche la nostra tradizione cristiana, lungo i secoli, si è riempita di regole, norme e riti. Inoltre, anche la nostra società postmoderna non è altro che una “liturgia” piena di costumi, abitudini e imperativi a cui tutti obbediscono con meccanica fedeltà.
I riti di purificazione sono presenti in ogni generazione umana perché sono una necessità antropologica, che nasce dalla coscienza di non essere ancora degni e pronti per affrontare i momenti più sacri della vita. Corrispondono al bisogno di sentirsi puliti, in ordine, adeguati alla circostanza. Tuttavia, qualsiasi pratica di purificazione proviamo a compiere — siano esse antiche e collaudate formule religiose, o i più laici imperativi della società contemporanea — riusciamo a modificare solo l’involucro della nostra vita, come già i profeti denunciavano:
«Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6).
Incapaci di purificarci da noi stessi, diventiamo facilmente «ipocriti» (7,6) e molto critici nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Non riuscendo a sbiancare la nostra vita come vorremmo, cominciamo a pensare che il problema deve essere per forza all’esterno. In questo quadro fosco, compare come un raggio di luce la parola del Signore Gesù:
«Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro» (Mc 7,14-15).
La radice della nostra impurità non va cercata fuori, in un’inutile quanto pericolosa caccia al colpevole. Sono le profondità del nostro cuore a partorire tutti i possibili «propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (7,21-22). Questa presa di coscienza non è una parola di giudizio, ma di liberazione. Se, infatti, accettiamo che la tenebra sta dentro, non fuori, allora Dio ci può salvare. Perché noi non siamo esseri radicalmente impuri, ma figli di Dio. Dentro di noi non abita solo la menzogna, ma più profondamente una «parola di verità» che, attraverso il nostro battesimo, «è stata piantata» in noi e può portarci «alla salvezza» (Gc 1,21). Questa parola si è fatta carne ed è il cibo che possiamo imparare a masticare, accogliendolo «con docilità» (1,21).
I riti di purificazione sono inutili perché solo un Altro può rendere puro il nostro cuore, amandolo così com’è. Questo era il senso profondo del discorso sul pane di vita, la carne di Cristo offerta come cibo per il mondo. A noi pare impossibile che Dio sia così dalla nostra parte da immergersi nel nostro cuore sporco per farlo diventare pulito. Ci sembra una follia che Dio possa amarci per quello che siamo, facendosi carne della nostra carne. Eppure, nella misura in cui ci nutriamo di questa speranza, la purezza in noi guadagna terreno. Smettiamo di vivere con affanno il tempo e le occasioni, perché impariamo ad accogliere tutto come un «dono perfetto» che viene «dall’alto», che discende «dal Padre» (Gc 1,17).